Horror Fanatics: la Lista Definitiva delle Migliori Serie TV e Stagioni dell'Orrore

Horror Fanatics: la Lista Definitiva delle Migliori Serie TV e Stagioni dell'Orrore

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In 'sto periodo qua, in cui abbiamo ancora timore di uscire e ci ritroviamo a consumare vagonate di serie tv, riesce facile perdersi tra i flussi dello streaming. E chi è che non ha passato qualche ora a recuperare capisaldi degli ultimi anni che prima, per lavoro o vita, aveva semplicemente evitato? Ne abbiamo per tutti i gusti. Ci sta quella delizia de Il Metodo Kominski, oppure l’Italia nera, nerissima, di Gomorra. Oppure The Crown, che anche se non ti piacciono le serie Storiche con la S grande, pazienza...è un capolavoro e dobbiamo farcene una ragione...

“E gli horror? Dove stanno gli horror?”

Ci stanno, ci stanno. Stanno tra le pieghe da decubito e le ombre primordiali di questa beneamata Golden Age delle serie che grazie, bello che ci siete, bello che sono nel pieno della lucidità per spararmele tutte senza sentirmi in colpa e bello che...

"Sì, ma 'sti horror, ripeto?"

Arrivano gli horror, arrivano. Perdo giusto un po' di tempo perché, diciamolo, le serie tv horror sono un po' un casino. Non che non ci siano o che siano incapaci di attrarre una discreta quantità di appassionati e forsennati tagliagole. 

Ci sta il jumpscare nelle serie come, boh, i calzini nei piedi?

A volte sì, a volte no. A volte riescono a tenerti coinvolti con trame apprezzabili, contorni approfonditi e bubusettete mai fini a se stessi, a volte invece faticano a diluire in modo convincente il proprio contenuto narrativo (già denso di natura) in lunghe, lunghissime ore.

Ma l'horror è ovunque, è universale. E universali sono le serie.

Che mica ci va di ignorarle, giusto?

E quindi dai, facciamoci questo viaggetto tra le (secondo il me medesimo spanciato sul divano con patatine, birra e lume di candela) migliori serie da raccapriccio degli ultimi quattrocentocinquantacinque e passa giorni.

Le Serie TV che “ti inquietano male”

Marianne (Netflix)

Siamo in Francia e Emma Larsimon è una ex adolescente schizzata da incubi e visioni, che ha esorcizzato trasformandosi in una famosa scrittrice horror e spiattellando a tutti storie e storielle su Marianne, simpatica strega perversa. 

La simpatica strega perversa ha evidentemente scoperto che qualcuno ha scritto su di lei senza rispettare il diritto alla riservatezza e, essendo sprovvista di avvocati, ha deciso di infestare e possedere il paesino natale di Emma, Elden, costringendo la scrittrice a tornare indietro e ad affrontare il suo oscuro passato tormentato.

Che Netflix tiri fuori delle chicche senza fronzolare con campagne pubblicitarie martellanti e gridolini stridenti da “guarda che cast, guarda che star” è cosa nota.

In Marianne c'è tanta roba: c'è la costa, il mare, il faro, gioia di tutte le atmosfere ambigue e nebbiose, c'è una Victoire Du Bois - bella, brava, applausi - che incarna Emma in modo straordinario, non convenzionale, perfettamente in equilibrio tra l'ironia e l'irritazione, la ricerca di una pace interiore e l'autodistruzione. C'è un po' di déjà vu "kinghiano" che, va bene, male non fa, è di certo voluto e ormai è osso parietale del genere.

E c'è la regia e la scrittura sapiente di Samuel Bodin (insieme alla penna di Quoc Dang Tran) piena di substrati, di congela ossa senza troppo melodramma e priva di effettoni stratosferici e di un'estetica morbida che coccola lo spettatore. Un Bodin già apprezzato nella mini webserie T.A.N.K. e al massimo della sua creatività.

Qualche prevedibilità la troviamo, ma si perdona, perché è un canone ormai, di quelli da farsi due risate con gli amici, e gli si vuole bene. E poi mantienila te 'sta tensione per otto puntate!

Ah, e qui l'indemoniato non oscilla, non parafrasa la Bibbia e non sembra un pupazzone con problemi di gola secca o di hangover. La manifestazione del Male è bilanciato per terrorizzare al meglio e nel profondo.

Ma che figata, vero? C'è pure un finale a cliffhanger aperto, spavaldo, che grida alla seconda stagione qui e ora, che ho altra birra nel frigorifero e pure di candele ne ho una scorta.

E invece qualcuno ha deciso che era meglio chiuderla adesso e non si è capito il perché, ma la speranza è che chi l'abbia deciso si trovi a Elden, ora.

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Servant (Apple TV+)

Dorothy e Sean sono una coppia in apparenza gioiosa, hanno soldi a sbafo e vivono tra quattro degne mura a Philadephia. Lei è una giornalista televisiva, lui uno chef su commissione che va anche in tv.

I due hanno...anzi, avevano..anzi, hanno ancora...anzi, una via di mezzo, un figlio di nome Jericho di pochi mesi, che però è morto.
Dorothy non riesce a superare il trauma e la coppia, così da scongiurare tutto 'sto semplice lutto, decide di trattare una bambola reborn (avete presente quelle tipo verissime che fanno senso, no?) come un bambino vero. 

Le cose cambieranno in modo ancora più sinistro quando assumeranno la religiosissima tata Leanne per prendersi cura del bambino...cioè della bambola...cioè del bambino...cioè vedrete.

M. N. Shyamalan è tornato! Lunga vita a M. N. Shyamalan! Che di progetti altalenanti ne ha fatti così tanti che si è guadagnato un posto d’onore nell'enciclopedia sotto il termine schizofrenia.
Qui, Mister S. produce interamente e dirige due episodi di questa serie claustrofobica nata dalla penna di Tony Basgallop e che fa dei suoi mezzi da barboni, in confronto ad altre mastodontiche produzioni tripla A, il suo punto di forza, costringendo narrazione e scenografia a “limitarsi” qua e là e, per questo, diventare una delle serie horror più inquietanti degli ultimi anni. 

Perché Mister S. sa il fatto suo in quanto soggetti, sempre eccentrici, pieni di spunti e con potenzialità infinite, ma che riescono veramente solo quando i produttori lo guardano dall'alto al basso e gli dicono: “To', piglia 'sti due spicci”!

E mo' che con 'sti due spicci ti faccio lo Split con James McAvoy che interpreta la mia filmografia, o The Visit, anche chiamato “horror con nonni nudi che corrono” che però paura fa davvero.

E anche Servant la fa, la paura, ma con lentezza e papillon. Racconta tutto e non racconta niente. È un puzzle silenzioso della mente malata di una donna che ha perso il figlio. Racconta angoli raccapriccianti e malsani di una casa in apparenza perfetta ma, allo stesso tempo, lascia presagire altro che di sano c'ha ancora meno. 

C'è un doppio mondo in Servant che si picchia in continuazione, senza mai toccarsi. E nel mezzo c'è l'ignaro spettatore con la birra ormai calda perché se guardo la bottiglia un attimo aspetta che poi mi distraggo e ci sta un colpo di scena davvero incredibile che qui mica ti avvisano tre quarti d'ora prima

E dove anche le cose più semplicemente accidentali come sbattere per sbaglio la testa di una bambola sulle sbarre della culla ti fa un'angoscia che oh mamma. Bravo Mister S. e bravi tutti.

Seconda stagione confermata? Seconda stagione confermata! Se siete curiosi abbiamo recensito la prima in questo articolo.

The Terror: Infamy (Amazon Prime Video)

Anni ’30: i Nakayama vivono su un’isola artificiale a Los Angeles, in California, chiamata Terminal Island, insieme ad una nutrita comunità di giapponesi americani. Chester è figlio di Asako e Henry e completamente diviso tra due culture, senza contare l’amante Luz, di origini latinoamericane. 

La vita procede liscia finché la comunità non è scossa da una serie di delitti che vengono attribuiti ad un Bakemono Yūrei, uno spirito vendicativo che torna dal regno dei morti per vendicarsi di un torto subito. Contemporaneamente, come se tutto non fosse già troppo profumo di lavanda, a Pearl Harbor succede quel che succede e tutti i giapponesi americani vengono internati in appositi campi di detenzione.

Che bomba, che storia, che figata! Non che la prima stagione fosse robetta eh.

Dai ghiacci artici all’America del conflitto, The Terror si dimostra LA serie horror antologica da bava per chi non ne ha mai abbastanza e chissene se la birra è finita e le candele sono tutte consumate. 

Qui c’è la necessità di dire che ok, Pear Harbor è stata un’infamata, ma che nemmeno gli americani hanno scherzato. C’è tutta quella meraviglia del kaidan giapponese (le storie di fantasmi) e nessuna censura o abominevole ritaglio politically correct delle angherie subite ai danni dei poveri innocenti. C’è soprannaturale, non detto, raccapriccio, razzismo dilagante e prigionieri stessi che, nella disperazione nera, si denunciano a vicenda per sopravvivere su uno sfondo asettico e terribile allo stesso modo. Il nemico che è lo spirito, certo, ma forse lo è anche l’uomo e magari lo è anche di più. 

Che paura, poi. Non so a voi ma a me paura l’ha fatta. 

Vedere lo Yūrei che, schivo schivo, si può far trovare in ogni sala del tè o in ogni stradina buia quando meno te lo aspetti non è roba nuova, che tutti sappiamo chi è Ju-on o Ringu tra le miriadi di produzioni, o se non lo sappiamo forse è meglio, ma forse anche no. Nulla di nuovo, insomma, ma mannaggia se nel contesto è efficace.

E vabbè se proprio si vuole fare i puntigliosi manca un po’ il senso della solitudine e della memoria della prima stagione. Una trama più costretta, meno aleatoria e quindi viscerale. 

Ma è intelligente, ‘sto Infamy, non avvezzo a macchiette e stralunati cambi di ritmo ingestibili, eccessivamente ambiziosi.

È colto e raffinato nella sua genuina rappresentazione dell’inferno, quindi si piglia ‘sto posto nella top con tutti i crismi.

In questo articolo la nostra recensione del primo episodio.

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Di cervelli ne abbiamo?

Kingdom (Netflix)

Corea imperiale, dinastia Joseon: il sovrano di tutti i sovrani è ammalato di brutto. Nessuno può vederlo per ordine della giovane moglie gravida Cho e del primo ministro Jo Hak-joo, nonché padre di Cho, che tipo espellono malvagità e ipocrisia da tutti i pori già dal primo fotogramma. 

Neanche il principe erede Lee Chang può vedere il padre, mentre a corte iniziano ad accadere cose scabrose e si vocifera del decesso del monarca. Lee Chang decide allora di partire in viaggio verso sud insieme alla guardia del corpo Mu-yeong, così da trovare l'ex medico reale e scoprire la verità. Le domande aumentano, i dubbi pure, gli intrighi anche. E poi..zombie!

E di domanda una ci sta subito: perché Kingdom non è stata osannata, sbandierata e omaggiata in ogni dove negli ultimi due anni?

Nata dal webcomic bello “The Kingdom of the Gods” di Kim Eun-hee e Yang Kyung-il, al momento è una delle maggiori produzioni della grande N e, allo stesso tempo, una delle meno considerate. Che non si capisce, 'sta cosa. È perché è in lingua originale coi sottotitoli? (no, perché questo rende tutto ancora più figo, per me). È perché sa di troppo “esotico”? È perché che palle gli zombie, ci sta già The Walking Dead che ormai c'ha più vita dei Robinson?

Kingdom è un capolavoro di epicità non morta coreana, come solo loro riescono a rendere assurdamente credibile (pensate a Train to Busan e state un minuto a contemplarlo nei vostri wet dreams), condita di zombie che corrono come in tante produzioni, certo, ma che serpeggia tra diversi registri e con una spolverata abbondante di thriller politico che levati Scandal.

E poi ci sta tutto: magnifiche scenografie e coreografie, paesaggi splendidi della meglio Corea, costumi favolosi e curatissimi, scelta cromatica con una sua simbologia, interpretazioni solide, background velenoso contro i giappi, villaggi abbandonati, distruzione, disagio, guerra, tradimenti, amore, cannibalismo, zombificazione come chiave di lettura sociologica che noi siamo ricchi bastardi e arrampicatori sociali e quindi lasciamo voi poveri a morire nel fango, ampie inquadrature con agglomerati di putrefazione a passeggio, roba mozzata, la botanica. Tutto per una serie divisa al momento in due stagioni per un totale di quasi dodici ore facilmente consecutive.

La seconda stagione è uscita da poco, con ancora più drammi e fuochi d'artificio. Quanto ancora volete farci aspettare per la terza?

Black Summer (Netflix)

Estate, America nuda e cruda nel pieno dell'apocalisse zombie. L'epidemia è esplosa da poche settimane e Rose viene forzatamente separata dalla figlia Anna poiché quest'ultima viene condotta dai militari verso lo stadio della città. Da quel momento per Rose inizierà un concitato viaggio verso lo stadio, incontrando alcuni superstiti e molti più pericoli.

Partiamo subito da un presupposto: Black Summer, serie della Asylum (quella che crea film con quali e tornato, ma anche no), prequel di Z Nation, non è la serie perfetta, anzi, è piena di difetti e stonature! C'ha dei buchi di trama che sono stargate, alcune puntate assolutamente inutili e dei personaggi scemi come capre e dimenticabili dopo cinque secondi e tre zombie a sbranarli dopo.

Quindi perché? Cioè, perché oh tu omuncolo stai infilando 'sta roba tra le migliori serie horror degli ultimi quasi due anni?

Perché è ansia, e l'ansia va assaporata!

In Black Summer non ci sono le efferatezze sanguigne di Kingdom e nemmeno gli attacchi narcolettici di The Walking Dead. È una storia imprevedibile e velocissima, così com'è veloce il modo con cui le cose possono andare totalmente in vacca (per non insultare alcuna professione). Il tempo è il vero protagonista di questa serie e di lui non ce n'è mai abbastanza.

C'è un sacco di disagio, di pensieri negativi e del peggio dell'umana umanità. E il tutto mentre gli zombie fanno i 100 metri e tu sei tipo un inserviente fuori forma, che ti domandi anche come fanno 'sti uomini a trovare il modo di essere cattivi mentre hanno un contagiato che gli sospira sulle chiappe.

C'è una regia che sembra diretta da un runner di The Last of Us e che ti spinge a guardarti intorno perché sì sei certo che forse potresti essere proprio lì in mezzo anche te, mentre in realtà ci sono solo un paio di bottiglie di birra vuote e una candela ormai consumata. C'è la fotografia efficace di Yaron Levy e Spiro Grant, affannosa, decadente per un'estate mai così grigia.

Insomma, ci sono tante sfaccettature e tanti spunti, soprattutto tecnici e stilistici, che possono condurre Black Summer su terreni di qualità più consacrati. Che poi, dai, è stata anche rinnovata per una seconda stagione, quindi il beneficio del dubbio glielo lascio.

Consiglio: non affezionatevi, che qui mica siamo in The Walking Dead che, a parte casi rari da alza share, tutti campano, figliano, si sposano, si lasciano, si risposano, piantano le ortensie, invecchiano, vedono crescere i nipoti e magari gli lasciano qualche bene in eredità. Qua la gente muore male.

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Santa Clarita Diet (Netflix)

California, siamo a Santa Clarita, tipo sobborgo x americano classico con famiglie felici e medio borghesi, casette tutte uguali, torta di mele a raffreddare sul davanzale e così via. Joel e Sheila vivono proprio in una di queste case, stanno insieme dal liceo e ora stanno insieme anche nel lavoro da agenti immobiliari. 

Lui insicuro cronico e lei stufa della vita di tutti i giorni, hanno una figlia adolescente di nome Abby che ovviamente vuole andarsene perché basta vi odio. Tutto bello, finché un giorno Sheila inizia a vomitare come un idrante fino a morire. Si risveglia e non solo è completamente priva di freni inibitori e inizia a perdere pezzi, ma è anche affamata di carne cruda. Se umana ancora meglio!

La mamma diventa uno zombie e le piace anche esserlo. Bene che un po' ci si annoiava e ora è l'occasione per organizzare un sacco di nuove attività di famiglia che non comprendano falciare il prato o lavare la macchina.

Roba tipo far sembrare tutto normale, trovare cibo per la mamma, far sembrare tutto normale, trovare altro cibo per la mamma e indagare su antiche maledizioni sempreverdi.

Far sembrare tutto normale è il mantra di Santa Clarita Diet che vuole rientrare fieramente nella schiera di horror comedy demenziali che sostanzialmente sfotte gli americani medi e ci riesce anche bene. 

Dai primi tirchi comunicati tutti i salutisti del mondo esultavano per una nuova serie new veggie, mentre invece muore un sacco di gente anche se tutto è leggero, allegro e incantevole. C'è brio, c'è ironia splatter, la scienza, la magia e tutto accatastato insieme in una frittone di elementi che avrebbero fatto dire "cià" a qualsiasi showrunner ma non a Victor Fresco.

E poi sì, ok, diciamo che c'è anche la metafora sociale molto repressa che i pisolini dei sobborghi americani generano mostri e cose così, che a noi però frega relativamente se di fronte abbiamo la faccia Timothy Olyphant mentre osserva la moglie sventrare un umano vivente e ad appoggiarla come tutti i bravi mariti fanno con i nuovi passatempi delle consorti.

Era il 2017? No, dai. Sì, ok, era l'anno 2017 quando Drew Barrymore ci scioglieva con uno dei suoi sorrisi d'oro mentre masticava budella umane e con il 2019 cala il sipario con una più che dignitosa terza stagione.

Se non l'avete vista vi siete proprio distratti, e quelli che hanno deciso di non farla continuare all'infinito meritano di trovarsi a Elden con quegli altri là.

Anni ‘80 mon amour!

Stranger Things (Netflix)

Vicissitudini, crescita, sfighe varie e nuove consapevolezze per i ragazzi (e non solo) ormai più amati della nostra sorellastra a più pollici. Dopo aver affrontato incubi, possessioni, mondi paralleli, demogorgoni e primi amori, ora siamo nel 1985. C’è chi si sbaciucchia, c’è chi fa lo sceriffo e cerca di essere paterno con una adolescente con “poterucci” (tipo devastare, volendo, solo col pensiero un intero quartiere), c’è chi si dà al giornalismo e cerca di imporsi in un mondo maschile, chi vuole solo giocare a D&D perché che palle le ragazze e chi vende gelati al centro commerciale vestito da Paperino. Nel frattempo cose mostruose sono ancora nascoste e più vive dei vivi, e i Russi cattivi di certo non vogliono perdere l’occasione.

Ok, qui non sono stato a far lo spiegone con la trama della prima stagione dell’ormai lontano 2016 (sic!), che se non avete visto Stranger Things le possibilità sono: o che avete avuto molto da fare, ma tipo quel da fare della serie essere rapiti da un fanatico che vi ha costretti a scavare pozzi per anni, o che siete persone prive di cuore. 

Che lo ammetto, boh, manco ho voglia di dilungarmi. 

Se prima a Hawkins succedeva di tutto, nella terza stagione, uscita ormai nel 2019, ne succedono altre ancora e ancora più grosse e ancora più pericolose e ancora più internazionali. I Duffer, fratellini mai veramente cresciuti, inondano la serie con ogni adorabile citazionismo possibile a nostalgici, nerd di sorta e fan di cult horror di ogni risma, che a volte dici anche meno, ma chissà perché appena lo dici poi speri subito di essere castigato.

Dai, basta, che se siete le persone cattive che ho prima citato e volete redimervi non voglio svelare niente.

“Ancora? Ok, dai, ultima cosa”.

Detto così sembra anche un imponente giostrone, ma in Stranger Things non ci sono solo rimandi e paura, ma anche profondità caratteriale (sempre), lutto (una buona dose), passaggio a un’età adulta che, sotto sotto, speri che non arrivi mai (immancabile) e lacrime (tante). È una serie che inevitabilmente lascia il segno che deve lasciare, con buona pace dei puristi, in ogni genere possibile. 

Quindi to', la infiliamo anche negli horror. 

Anche se la mia ragazza, che tipo se sente per radio il trailer di The Nun non dorme la notte, lo guarda serenamente a luci spente e mi dice: “Ah, ma quindi sono così gli horror?”.

Non proprio...ma di certo non guasterebbe.

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American Horror Story: 1984 (FX)

Nostalgici anni '80, ma questa volta più sporchi e unti. Siamo a Los Angeles e tra poco ci sono le Olimpiadi: molti vogliono restare e molti di più fuggire a gambe levate. 

Così, un gruppo di ragazzi parte per lavorare come istruttori in un campo estivo, cioè il Camp Redwood (che già il nome è garanzia di globuli rossi sparsi pure nei cotton fioc).
Dopo solite robe da teenager ribelli che includono serate a base di alcol e droga tutto viene rovinato da un “fattuccio” che finora preoccupazioni zero: in passato a Camp Redwood si è compiuto un gentile massacro per mano del famigerato Mr. Jingles e, altro fattuccio da niente, per festeggiare la riapertura del campo il Jingles ha deciso di fuggire da dov'era rinchiuso e di partecipare. Che sia mai, lui è un vero gentiluomo.

Auguri a Ryan Murphy e alla sua creatura più longeva che compie nove anni! Compleanno di classe? Basta prendersi per il culo? Ma no, dai perché!

Facciamo invece che ci sbarazziamo dei veterani Sarah Paulson e Evan Peters e alziamo l'asticella dell'eccesso perché sì.

Come in ogni stagione di American Horror Story che si rispetti, anche 1984 non scappa da rimandi e citazionismi vomitati in un flusso continuo che qui ha il sapore dei grandi slasher movies (vedi Venerdì 13 o Halloween, giusto per restare nella superficie della superficie).

Tutto è saturato, aeronautico e divertentissimo. Ogni evento sembra costruito a caso, così come quel grande, azzoppato e lercio scuoia sexy teenagers scemi che è il mastodontico John Carroll Lynch.

Nessuna sorpresa, nessuna imprevedibilità, tutto è risaputo già ancora prima di sedersi sul divano, la trama dell'intera stagione è già bella che scritta dopo la prima puntata e ogni cromatura al neon ruvido sembra creata apposta per muoversi al ritmo elettronico di Mac Quayle e del sangue che schizza dai coltelli. E chissà che c'hanno combinato davvero per rendere tutta questa prevedibilità così irresistibile.

Ci stanno puristi che “no Ryan tu sei politico e anarchico, dove sono le prime stagioni che lì c'era roba che scotta sulla società corrotta contemporanea...no Ryan ti sei venduto, ritorna dai” che avranno di sicuro da ridire.

Boh, sarà che a me i divertissement, se palesemente tali divertono come un pupo, ma quest'orgia di assurdo mi ha proprio conquistato.

Che poi c'ha altri quattro rinnovi di fronte a sé. Quindi che ci cambia? Essù, lasciamolo fare.

In questa area potete trovare le nostre recensioni al riguardo.

Si sta meglio in famiglia

Castle Rock 2 (Hulu)

Cittadina di Castle Rock: dopo che è successo di tutto nella prima stagione facciamo che spostiamo un po’ la nostra attenzione altrove. Annie Wilkers e Joy sono madre e figlia, o almeno così crediamo. Annie è infermiera e le due si spostano da sedici anni (sedici!) da un luogo all’altro in cerca della loro personale valle incantata. Il destino vuole che si fermino proprio a Castle Rock...peccato che il Male (qui di tipo quattro secoli) è sempre lì in agguato e in cerca delle persone giuste prima di svegliarsi e fare casino.

Seconda stagione con i contro mazzi. J. J. Abrams e sua maestà Stefano Re sempre al timone, insieme a Sam Shaw e Dustin Thomas (creatori della bella ma sfortunata Manhattan), di questa in apparenza sgangherata ma solidissima serie che trae spunto da tutto ciò che è kinghiano al mondo.
Che tipo tutta la prima stagione gira attorno al carcere de Le ali della libertà e, tra la prima e la seconda, ci stanno riferimenti a Cujo, Shining, Stand by Me, Misery, Le Notti di Salem che lasciano presagire solo orrore, ma di quello brutto che sono più bravo io a usare i soldi quando vado a fare la spesa verso Natale

Invece capita a volte che no, che tutto torna, tutto trova una spiegazione (tipo una ventina di spiegazioni) e un personalissimo incastro coerente per una cittadina (immancabilmente nel Maine) che di coerenza non ne ha. È tutto moderato così bene che a un certo punto smetti anche di pensare a King - anche se non sto facendo altro che nominarlo - e cerchi solo di capire quello che sta succedendo e perché gli abitanti non si sono tipo trasferiti in massa fin da subito. Perché il tasso di mostruosità è elevato non poco e anche nella seconda, bella, stagione non si scherza e lì ci cresci i figli proprio se sei un fan della morte più che certa.

Fotografia e regia sono le più fedeli possibili alla visione del Maestro (eccolo ancora), con luoghi iconici, ombre, rumori che stridono, grigio ovunque. Roba che chi ingurgita horror potrebbe pensare vabbè, ‘sto a guardare un Art Attack di paura, ma che contestualizzato al King Universe prende una piega più intima, calorosa, al sapore di una zuppa calda in famiglia durante una nottata fredda e ventosa. Sicurezza, insomma, quella là.

Castle Rock è così un bambino grande e indipendente che manda qualche abbraccio al papà e poi procede nel lungo e impervio sentiero della vita seriale.

E questo capitolo lo prosegue con le tinte del primo, iniziando, affascinando, spaventando con le incarnazioni di un Male in apparenza invincibile e chiudendosi in un cerchio chiaro, pulito quanto amaro in una delle puntate di più alta serialità degli ultimi anni. 

Un cerchio si chiude per sempre, ma mai per sempre come dice King.

Quindi facciamo che non sia per sempre, eh. Che se non è Elden è Castle Rock.

NOS4A2 (Amazon Prime Video)

Siamo nel ridente New England e Vic McQueen è aspirante artista, sta finendo le superiori e possiede un dono che “wow”. Cioè quello di raggiungere i luoghi dell’immaginario, con tutto quello che cerca, superando giusto un ponte nascosto chiamato Shorter Way Bridge.
Questa sorta di superpotere, però, la porta ad incrociare il proprio cammino con soggetti eccentrici quanto terrificanti, tipo una medium che indovina le cose con un sacchetto di tessere dello scarabeo (e che c’ha anche perso un braccio) e un tizio inquietante su una Rolls-Royce Wraith di nome Manx, che rapisce i bambini maltrattati promettendogli di portarli a ChristmasLand e invece scherzetto, mangia le loro anime perché contrastano l’avanzare delle sue rughe. 

Qui siamo nel terreno di King figlio, ovvero Joe Hill, e del suo omonimo romanzo trasformato in questa serie che aveva tutte le basi per una cantonata e invece “ma guarda un po’”. 

NOS4A2, traslazione di Nosferatu (creato nel ’22 dall’immortale Murnau) versione targa d’auto, se la gioca tutta in quel confine impalpabile che separa la realtà dall’immaginazione e che trova le sue fondamenta nei personaggi stessi che modellano, guastano e ricalcano il confine per le loro ragioni, come il nostro novello Krampus. 

Sembra di trovarsi in un canto popolare o in una fabula dai toni cinefili che vuole far perdere il sonno ai bambini, ma anche e soprattutto agli adulti.

Ed è tutta roba così, insomma. Il salto di confine è illustrato in ogni sua rappresentazione possibile. Dall’aria rarefatta, sospesa, al design dei personaggi (adocchiate la maglietta della protagonista, sempre uguale e sempre diversa allo stesso tempo e con un indizio che racchiude metaforicamente tutta la puntata), alla fotografia fuori tempo, al trucco pesante e inverosimile, agli oggetti e al cibo decadente, sporco lercio, nel modo in cui vengono ribaltati gli aspetti più ingenui della gioia tramutandoli in orrore, il tutto a favore di una parabola del rapporto genitori-figli che sembra lì forzata e manco ci pensi ma che poi di sottofondo è sempre presente. 

I personaggi, chi per alcol, farmaci, depressione o paura, cambiano idea e carattere una dozzina di volte a puntata, mentre Manx (qui interpretato da un bravo Zachary Quinto) è tanto grottesco e improbabile che quasi fatichi a prenderlo sul serio, ma poi ti viene in mente che è tutto uno zig zag realtà-fantasia e quindi perdoni anche queste stranezze, insieme alla surrealtà del tutto.

Finisci una puntata e sei cupo, ne finisci due e lo sei ancora di più. Il malessere è presente come in ogni horror morboso degno del suo appiccicume e il citazionismo tanto di moda (anche su certi feticci e infrastrutture molto King padre) lo sopporti perché è affettuosamente voluto e moderato e perché, povero King figlio, si vede che all’ombra di babbo proprio non vuole morirci. 

Non un capolavoro, dai, ma intrattiene bene. È confermato per una seconda stagione, qualcosa da dire che spero verrà detto e il potenziale per diventare un piccolo cult. Quindi questo posto nella top se lo prende tutto. Ah, lo abbiamo pure recensito in questo articolo!

Horror Fanatics: la Lista Definitiva delle Migliori Serie TV e Stagioni dell\'Orrore

Tu qua non ci stai...

Le Terrificanti Avventure di Sabrina (Netflix)

...che qui fai rabbia e divento serio, perché Le Terrificanti Avventure di Sabrina aveva tutte le carte in regola per rientrare nella mia personalissima top delle migliori serie horror degli ultimi due anni (ma anche qualcosina di più, dai). Che è uno di quei prodotti che già a sapere che appartiene allo stesso spazio tempo di Riverdale ti prende male e, invece, finisce che ti destabilizza per il meglio. Fino ad oggi. 

Non mi fraintendete: adoro Sabrina e sono suo fan da sempre, da ogni serie animata e non, e da ogni numero di Archie Comics. Ma la possibilità di creare una nuova serie tv teen horror basata su di lei con maledizioni, sangue, gole tagliate, riti satanici e amori non corrisposti senza incastrarsi tra i fluidi di un sexy calderone brufoloso in piena crisi ormonale un po’ la vedevo dura. 

E invece c’era. Le Terrificanti Avventure di Sabrina c’era riuscita per ben due capitoli, convincendo, intrattenendo con personaggi approfonditi, non stereotipati o a base di melassa, una mitologia studiata che pescava nella meglio cultura popolare del terrore e diversi momenti che, per quanto soft che dai comunque parliamo di una ragazza spaesata perché non sa se scegliere il Signore Oscuro o andare a bere con gli amici, un po’ di tensione te la regalavano.

Questo prima di mandare tutto in trote (sempre per non offendere alcuna professione) nell’ultima e terza parte. Tutto inconcepibile, tutto sbagliato e pretenzioso, che la trama non sa di niente ma c’hanno comunque speso i milioni, i personaggi si sono tutti rincoglioniti e recitano peggio della pianta del mio piede.
C’è un susseguirsi caotico di eventi accozzati qua e là e uniti da bava e zombie (sì, zombie) senza un nesso vero e proprio e, verso la fine, speri che muoiano tutti che altrimenti il forno è acceso e la testa puoi infilarcela quando vuoi.

Vedere per credere. E se non l’avete vista recuperate le prime due parti e aspettate la quarta, che mo’ vediamo se vale la pena farvi fare ‘sto viaggio.

Soffro...soffro tanto...

La stagione che verrà

The Haunting of Bly Manor (Netflix)

Di tutta la roba che è stata annunciata (e non rimandata, magari) per ‘sto 2020 la seconda epopea antologica di quella perla che mannaggia quanto sei bella e scritta bene e diretta divinamente di The Haunting of Hill House è di certo quella che più attendo. 

Vecchie conoscenze tornano a interpretare nuovi personaggi e questa volta ci aggiriamo lungo le righe tremolanti narrate dalle numerosissime novelle del maestro Henry James. Che dei fantasmi sa pure che marca di dentifricio preferiscono.

Mike Flanagan c'ha lavorato anche in quarantena e sembra entusiasta che non ci sta dentro, quindi mi fido.

Sperando che sia agli stessi livelli se non oltre, fate sogni sereni.

Abbiamo recensito la prima stagione in questo articolo, non perdetevelo!

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