Da non Perdere: Wild Wild Country. La Recensione della Docuserie di Netflix

Da non Perdere: Wild Wild Country. La Recensione della Docuserie di Netflix

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Il controverso racconto di uno scontro di civiltà realmente avvenuto negli anni ottanta nel cuore dell’America più conservatrice, fatto di cultisti in rosso armati di mitra, attacchi batteriologici, cowboy e Rolls Royce.

Narrare una storia in maniera spontanea, senza intervenire troppo, è uno dei sogni proibiti di scrittori e registi: quando una vicenda viene inventata o tramandata, la presenza del proprio punto di vista, per quanto naturale sia come meccanismo umano, potrebbe viziare la materia pura, il fatto, e reinventarlo. Inoltre, spesso, poche vicende sono così forti da “raccontarsi” da sole, per cui sono pochi casi in cui gli autori o i produttori di una serie si cimentano con questo particolare taglio, delle volte difficile da realizzare proprio a causa della nostra stessa conditio di esseri umani, ma Wild Wild Country, prodotta da Netflix nel 2018, si dimostra essere uno dei più fortunati di questa particolare categoria.

Quando si parla di questa produzione, infatti, non si può certamente affermare che questo ambizioso esperimento condotto dal colosso americano non sia riuscito, anche perché questa mini-serie di sei episodi ha riscosso un importantissimo successo sia da parte del versante della critica che da quello del pubblico: d’altronde c’era da aspettarselo, anche considerando che la premiere di questa produzione avviene a marzo 2018, durante il Festival di Sundace, evento sempre più incentrato non solo al cinema d’autore e sperimentale, ma alle esperienze a episodi dalla durata complessiva superiore e di certo non inferiori a livello di qualità.

Wild Wild Country è infatti un ispiratissimo documento-evento, firmato dalla doppia regia dei fratelli Way (Maclain e Chapman), su un bizzarro quanto controverso fatto di cronaca avvenuto negli States, più precisamente nella contea di Wasco - Oregon, negli anni Ottanta.

Il minuscolo borgo conservatore di Antelope, ai tempi animato da una popolazione di circa una sessantina di persone, viene letteralmente “invaso” dal santone indiano Osho (quello dei meme e della famosa pagina Facebook) e dai suoi seguaci, i Rajneesh, che a poca distanza fondano letteralmente da zero una loro città, con leggi autonome, nella quale praticare il loro culto, “materialista e trascendentale” allo stesso tempo, a seguito di un’improvvisa migrazione dal paese di origine del guru dovuta ad un’enorme operazione anti-frode. 

Tra orge pubbliche, meditazioni, cowboy cristiani, attacchi batteriologici e cultisti color porpora predicanti amore cosmico e allo stesso tempo armati di ak47, scopriamo sempre più una storia realmente accaduta ma piena di improvvisi colpi di scena.

La vicenda viene raccontata dalle voce dei protagonisti: Ma Anand Sheela (braccio destro di Osho e vera e propria leader politico della comune), Jane Stork (una ragazza americana che ai tempi aderì al culto e in tarda età ne è uscita fuori), Philip Toelkes (avvocato di successo che si avvicina al culto per divenirne poi il rappresentante legale) e Laura Elsen per citare alcuni di essi.

La grandezza della serie, a nostro avviso, sta proprio nel modo in cui è narrata: il girato è composto prevalentemente dalle interviste ai protagonisti della vicenda, che la rivelano pian piano proponendo il loro punto di vista, spesso in contraddizione l’uno con l’altro, accompagnate da una mole incredibile di reperti video girati in quegli anni dai Rajneesh, da telegiornali o da altre fonti variegate – gli autori parlano di un archivio di circa 300 ore di reperti video che hanno visionato e selezionato per poi realizzare la serie

I fratelli Way si dimostrano assolutamente sul pezzo non fornendo un taglio unico alla narrazione per immagini e parole, cosa che si evince dalla scelta di non utilizzare, ad esempio, una voce narrante esterna, che potrebbe rappresentare una sorta di giudizio morale sulla vicenda, ma facendo parlare direttamente i testimoni e il girato del tempo, lasciando così campo libero allo spettatore per le sue riflessioni in merito: il risultato finale, infatti, è così potente che è praticamente impossibile non ricavarne una propria personale prospettiva

Se a questo aggiungiamo inoltre la presenza di una bellissima colonna sonora, firmata da artisti come Katie Kim (la sua “Day is coming” contorna uno dei trailer meglio realizzati da Netflix in assoluto, da vedere e rivedere) e Bill Callahan, capaci con le loro canzoni di alimentare quel senso di tensione e sorpresa che anima l’opera, ci sentiamo di fare un plauso a questa produzione in grado di proporre nel modo migliore possibile una vicenda che è uno scontro di civiltà, religione e diritti avvenuto proprio nell’apice e all’interno del sistema capitalistico che aleggia come uno spettro, per tutta la durata della sua messa in atto.

Wild Wild Country è una serie che non lascia di sicuro indifferenti: tutti coloro che amano un prodotto culturale capace di muoversi senza fatica tra storia, crime, politica e drammatico, in grado di appassionare lo spettatore e sfidarlo sin dai primi minuti, per poi spiazzarlo con una trama complessa, ricca di twist realmente accaduti, tanto da sembrare fiction di altissimo livello pur non essendolo non possono assolutamente perderla. D’altro canto, quando si ha a disposizione una materia prima così pura e controversa, è davvero difficile non riconoscere e non apprezzare questo piccolo capolavoro che ha stupito gli americani stessi prima e poi tutto il resto del mondo.

madforseries.it

5,0
su 5,0

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